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NAPOLI E  PARIGI NELL’800

 

1.1  Tra naturalismo e Accademia

 

Mentre il giovanissimo Degas si affaccia  alla vita l’arte in Francia sta cambiando volto . Dagli anni trenta si nota un lento ma costante processo di allontanamento dagli schemi promossi dalla scuola di Belle Arti, l’istituzione che a  Parigi era il corrispondente dell’Accademia di Belle Arti in Italia, e una altrettanto costante crescita di libertà espressiva nello stile e nei soggetti. La regola classicista, in vigore anche nell’Accademia  Reale di Belle Arti di Napoli, secondo cui il “bel disegno” deve costruire l’opera e certificare la precisione riproduttiva, comincia a essere sentita vuota di senso e non corrispondente alla funzione dell’arte, che ora taluni  coraggiosi propongono come mezzo di rappresentazione cromatica della verosimiglianza oggettiva.

Un momento di crisi istituzionale si ha in occasione del Salon – l’esposizione organizzata periodicamente dalle Belle Arti – del 1824, cui partecipano anche paesaggisti innovatori come l’inglese John Constable, promotore di una tecnica più rispettosa del dato naturale. All’avanguardia si collocano i pittori della scuola di Barbizon  ( dal nome del villaggio ai margini della foresta di Fontainebleau  ) che praticano la pittura all’aria aperta, metodo fino ad allora usato per abbozzare il

lavoro. Tra il 1830 e il 1840 si afferma in Francia il positivismo, che investe i vari campi del sapere e dell’espressione artistica, introducendo in letteratura e nelle arti figurative la nuova estetica del realismo:  l’arte si volge al dato reale, al fenomeno osservabile, privilegiando l’ambiente contemporaneo . I giovani pittori che aderiranno all’ Impressionismo appartengono per la maggior parte alla buona  borghesia.

Nati fra il  1830 e il 1841 nella capitale, o qui trasferitisi in giovane età

si incontrano all’Ecole des Beaux – Arts e insieme si recano al Louvre per copiarne i capolavori. Sono di casa al Louvre soprattutto Manet, Degas e la Morisot. Prima di Barbizon e degli impressionisti, il primato  indiscusso è appartenuto alla pittura di soggetto storico o mitologico sancito dall’arte ufficiale delle accademie. Tutto questo viene  messo in discussione, attaccato e posto definitivamente in crisi da Gustave Courbet (“ èleve de la nature “ come ama definirsi ), con la sua fede nel realismo e la sua vocazione ideologica, di concerto con letterati quali Baudelaire, Champfleury e Proudhon. E’ ancora fresco il ricordo del Pavillon du Realism allestito dall’artista all’esterno dell’esposizione universale, in aperta polemica con opere  quali “l’atelier del pittore” e “Funerale a Ornans”.Nello stesso  tempo, Corot- altro grande maestro per i futuri impressionisti, tanto da spingere Pissarro a firmarsi anche “allievo di Corot “ – scrive nel suo carnet: –

“ Il bello dell’arte è la verità bagnata nell’impressione che abbiamo ricevuto di fronte alla natura”.[1]

Com’è Parigi nella prima metà dell’800 ? E’ una città che si avvia a diventare metropoli, governata da Napoleone III, nipote di Bonaparte, eletto prima presidente della seconda repubblica ( 1848-1852) e poi, con il colpo di stato del 2 dicembre 1852, proclamato imperatore. L’anno seguente Napoleone III chiama alla prefettura della Senna  il barone Georges – Eugène Haussmann, e lo incarica di trasformare in moderna metropoli la capitale che ancora ha molto del volto medievale, in più è afflitta da lacerazioni sociali, focolai di ribellioni , epidemie ( i moti del ’30, il colera del ’32 ).

Così, Haussman ha mano libera per reinventare- con l’aiuto di ingegneri, preferiti agli architetti- lo scacchiere urbanistico, attraverso la spettacolare rete dei” boulevards”: ampi viali sistemati secondo arditi giochi prospettici, spesso congiungendosi a “ V “, accompagnati dal verde degli alberi, su cui si affacciano caffè, ristoranti, negozi, eleganti appartamenti signorili ( le “maison rapport”, le case a più piani ).L’Opèra, progettata dall’ingegnere Garnier, viene concepita come parte integrante di tale complesso; perno di tutto il sistema è l’Ile de la Citè, completamente trasformata. I “grand travaux” comprendono anche l’immensa ricostruzione fognaria. I boulevard, che mettono in comunicazione diretta il centro e la periferia, facilitano inoltre i movimenti di materiali e manodopera necessari alla nuova rete ferroviaria, gia in costruzione dal 1840.Parigi pian piano si va trasformando nella “ Ville Lumière”.Tale si presenta più tardi all’Esposizione Universale dell’89 ( con la prima illuminazione pubblica a gas esistente ), in occasione della quale viene eretta la Tour Eiffel. Intanto dal 1876 si sta costruendo la chiesa del Sacrè-Coeur edificio al centro di tutto un quartiere spesso frequentato dagli impressionisti, Montmartre[2].Molto diversa  risulta la situazione napoletana di inizio Ottocento, questa differenza è dovuta in parte alla situazione storico-politica   di grave deficit finanziario, eterno problema del regno di Francesco I . Nel 1821 le truppe austriache stanziano a Napoli, solo nel 1827

il Re ne ottiene il ritiro. Il loro mantenimento ha inciso  in modo notevole sul bilancio statale. Dopo la partenza degli austriaci la sicurezza del regno resta affidata all’esercito napoletano del quale Francesco  I, per quanto ha visto nel passato, non può fare sicuro affidamento per cui tratta l’arruolamento di regimi svizzeri mercenari. Dopo i disastrosi moti del 1820 qualche fiammata di libertà si accende di tanto in tanto nel regno ma sono guizzi sporadici e isolati, subito repressi, come

quello del 1828 nel comune di Bosco, in provincia di  Salerno. Qui il canonico De Luca solleva la popolazione chiedendo la Costituzione ma il moto viene subito soffocato e il castigo terribile, non si fa attendere: il comune viene bruciato e 26  persone, tra le quali il  canonico De Luca, vengono mandate al supplizio.

Durante il regno di Francesco I di Borbone  Napoli, benché politicamente statica,  progredisce, sia pure di poco, nel campo industriale. Diverse aziende aumentano la loro attività ed altre, anche se non di grande struttura vengono impiantate.

C’è una  buona produzione di lana, seta e cotone, la crescita di fonderie, stamperie, concerie, tintorie, fabbriche di saponi, di candele, di cappelli, di mobili e altre piccole industrie. Non è un gran che per il regno di Napoli che ha bisogno di una radicale ristruttura economica per risanare le rovinose finanze, eppure nonostante la situazione non rosea Napoli può vantare due primati: la prima nave a vapore, la “ Ferdinando I”,  salpata il 27 settembre 1818 per il viaggio inaugurale Napoli – Genova, la prima compagnia di navigazione del Mediterraneo, fondata  nel 1823 con il nome di Società  Napoletana delle Due Sicilie.

Per quanto riguarda la situazione delle Arti non ci sono più i vividi ingegni del secolo precedente, perché agli esuli del 1799 si sono aggiunti quelli dei moti del 1820, si può dire solo di Anton   Pitloo, pittore di origine olandese iniziatore della “scuola di Posillipo” e di  Giacinto Gigante, continuatore della suddetta scuola ma prettamente napoletano, che è da annoverare tra i maggiori paesaggisti moderni[3]. Le regie scuole del Disegno sono state migliorate nei riguardi dell’inquadramento dei docenti e nella coordinazione degli insegnamenti, arricchite di specializzazioni e rette da norme didattiche ed amministrative, codificate razionalmente, ciò a partire dal 1815-1816 circa. Dal 1820 si vagheggia una riforma e un rinnovamento delle arti senza aver nulla  di fatto concretato. Nel 1822 le Regie Scuole del Disegno  sono unificate

sotto un’ unica denominazione, nasce così la  Reale Accademia delle Arti. Analogamente nello stesso anno viene varata una riforma approvata con R.D. 2 marzo 1822, resterà in vigore, con lievi modificazioni, per circa un quarantennio[4].

 

 

1.2  L’accademia e la fotografia.

 

La fotografia, si afferma in pochi decenni come la più popolare tra le arti visive del secolo. Nel  1849, appena dieci anni dopo  l’invenzione di Daguerre,   già centomila stampe fotografiche sono state vendute  nella sola Parigi, e il pessimistico commento fatto nel 1850 dal pittore accademico Paul Delaroche “ da oggi la pittura è morta “, sembra a molti un giusto pronostico. Fra le prime vittime vi sono i pittori specializzati in ritratti in miniatura, che scompaiono dalla scena artistica fino a che, all’inizio del nuovo secolo, l’eccessiva popolarità dei ritratti fotografici non è tale da riportarli nuovamente alla ribalta.

Ma la fotografia ha ormai sollevato l’arte da uno dei suoi compiti più limitanti, quello della pura riproduzione. Ora che il realismo è assicurato dall’apparecchio fotografico, che non mente nel documentare persone e luoghi, i pittori possono perseguire i loro scopi personali  – come fanno gli impressionisti – con una nuova libertà .E per questo utilizzano anche la stessa  fotografia.

Se Degas ne fa un ampio e dichiarato uso, anche Corot, Bazille, Monet e Cezanne se ne servono spesso seppure sono riluttanti ad ammetterlo. La macchina fotografica influisce a vari livelli sul  modo di guardare le cose. Degas parla della sua “ magica istantaneità “, qualità avvalorata dall’introduzione nel 1880 della prima macchina istantanea della Kodak.Anche Zola

ne è un particolare estimatore e ne possiede una. Il funerale a Ornans di Courbet viene criticato per la sua somiglianza a  un  “ dagherrotipo sbagliato “, mentre l’atelier riproduce la posa di molte foto di nudi diffuse a Parigi in quegli anni.Gli effetti determinati dalla fotografia sulla generale sensibilità visiva dell’epoca, in particolare su quella impressionista, vanno ben al di là dell’uso che ne fanno i singoli artisti. Nonostante i progressi nelle tecniche dell’incisione, fino all’avvento della fotografia e poi della mezzatinta che permette alle immagini fotografiche di essere riprodotte in serie in giornali e riviste, nessuno ha un’idea precisa dell’aspetto della gente e dei luoghi che esulano dalla diretta esperienza personale. La fotografia produce una nuova consapevolezza visiva e un certo scetticismo sulle immagini idealizzate dell’arte accademica. Chi ha visto, per esempio, le foto di nudo di Julien Villeneuve non può più dare lo stesso valore ai nudi di Bouguereau, comincia seppure  riluttante a chiedere ai pittori qualcosa di quel realismo che è dichiarata intenzione degli  impressionisti  esprimere. Ma la fotografia da anche un più specifico

contributo operativo. Prima della sua invenzione, le opere d’arte del passato o di un diverso ambito geografico sono conosciute solo attraverso incisioni di livello più o meno buono. Tutto cambia con l’avvento di ditte specializzate, come gli Alinari di

Firenze , che offrono eccellenti stampe fotografiche in bianco e nero di pitture e monumenti, ampliando così notevolmente la conoscenza dell’arte. In Francia il ruolo degli Alinari  viene svolto da Adolphe Braun ( 1811-1877 ), che ottiene l’esclusiva per riprodurre i quadri del Louvre, fotografa anche l’arte contemporanea, scegliendo generalmente fra le opere ammesse al Salon. Alla fine del secolo dispone di novemila foto di opere moderne, fra cui molte di Millet, Corot, Puvis de Chavannes, una di Manet, due di Monet e cinque di Degas[5].

Degas prima di servirsi  della fotografia per i suoi dipinti, possedendo egli stesso un apparecchio fotografico di cui va particolarmente fiero, conosce attraverso Felix Braquemond incisore ,le stampe giapponesi , introdotte dallo stesso a Parigi nel 1856.Queste gli sono di grande impulso per l’elaborazione di uno spazio figurativo non convenzionale, sganciato dalla prospettiva centrale della tradizione pittorica occidentale.  Degas si serve della  neonata fotografia prima attraverso il dagherrotipo poi attraverso l’istantanea. In particolare si interessa agli studi fotografici sui cavalli in corsa realizzata

da Eadweard Muybridge,traendone spunti per le sue celebri composizioni dedicate agli ippodromi. Sperimenta lui stesso la fotografia,sulla quale talvolta interviene direttamente, sovrapponendo la pittura all’immagine. L’originale taglio che Degas costituisce per molti dei suoi dipinti, rivela l’intenzione di offrire un’immagine istantanea della realtà, libera da schemi

razionali, siano essi estetici o narrativi. L’immagine si presenta come una visione casuale, in cui le figure e le cose sidistribuiscono nello spazio senza un’ordinata composizione prospettica o simmetrica. Tale scelta è evidente in alcuni dipinti degli anni settanta, come  l’Orchestra all’Opèra del 1869, dove l’inquadratura ravvicinata della scena taglia la figura  all’estrema destra e addirittura le teste delle ballerine sullo sfondo[6]. La fotografia rappresenta il terzo occhio di Degas, infatti la competenza del pittore inizia dove comincia la “ visione “. Ma ciò che vede è in diretta dipendenza da “ come si vede “, e quest’ultimo è il risultato sia di un progetto che di un fenomeno contingente. Tuttavia  perfino la casualità può essere attesa e perseguita: tutto consiste nel volerla o meno assumere come dato di  conoscenza del mondo, come termine che contribuisce alla sua immagine o invece ne disturba i contorni.

Mettere insieme la “ totalità “ antica con la “frammentarietà” moderna è stato uno dei ruoli che Degas ha imposto al proprio lavoro. In un simile contesto non può rimanere ai margini  la tecnica fotografica, che si propone alla ribalta con la forza e l’invadenza delle tecnologie più avanzate. Per di più essa amplia la visione, ne entra a far parte con la sua specificità, ne propone uno sviluppo parallelo e allo stesso tempo diverso da quello dei linguaggi tradizionali.

E’ perfino inutile soffermarsi sul fatto che Degas è in ogni caso ben conscio della prassi operativa fotografica e del funzionamento dell’obiettivo. Un dipinto come Giovanna e Giulia Bellelli del 1865, è significativo proprio in rapporto a quest’ultimo argomento: Giovanna appare infatti nel “fuoco” della lente, mentre Giulia si offre ad un campo sfuocato che la trasporta in uno stato di presenza assenza, impreciso e svaporato. La nuova musa è per lui un modo di vedere e come tale  va sperimentata.

Non smette di “perseguitarla”, almeno fino alla metà degli anni Ottanta.Nella storia della fotografia Degas occupa una posizione centrale: non fosse altro perché, mentre gli strumenti avanzano verso un uso facile e meccanico, è il primo ad ammonire di non perdere le origini, di esaminare il mezzo nella sua specificità, di essere fotografi-fotografi e non fotografi –pittori, di lavorare  sulla struttura della tecnica ricavando da lì le origini dell’opera. O meglio ancora, saprà estrarre dalla tecnica il linguaggio. Lo sguardo di Zoè Closier alle  spalle di un Degas assorto in una riflessione che si prolunga fuori campo, il ritratto di Mallarmè e Renoir, Louise sognante, la danza di luce e nella luce della danseuse  del corpo di ballo e le altre immagini dell’itinerario della maturità di  Degas sono una riconferma che il suo “terzo occhio” è costruito per sottrarre l’effimero alla dispersione , essendo nato per veder coincidere nella specificità dei materiali e delle tecniche creative ciò che sta al di qua e al di là dello sguardo stesso. E ciò vale sia per la pittura, sia per la scultura e la fotografia[1].

Il ruolo della fotografia nella cultura napoletana, non appare sicuramente secondario alla Francia infatti sin dalla sua comparsa sulla scena europea ci si rende conto della svolta che si sta realizzando nei percorsi  formativi degli artisti europei già a partire dal 1855. In questa data Paul  Nibelle critico francese scrive  una recensione sulla rivista “La Lumière”[2] a propositodell’Esposizione Universale di Parigi che si tiene lo stesso anno. Scrive dei paesaggisti  delle Due Sicilie presenti in mostra quanto segue: “Ainsi, dans le cinq tableaux qui composent au Palais de Beaux- Arts l’exposition des Deux –Siciles,nous comptons deux paysages de Francesco, et cet deux Paysages sont des vues de notre Bretagne. Qu’est donc devenue le beau ciel d’Italie ? Est-ce que cette nature qui passionait le gènie  de Claude Gelèe et donnait la fièvre à Salvator Rosa a perdu jusqu’à son prestige. Quoi ! L’art lorsqu’il a à sa disposition ce grand rayonnement de la lumière italienne et cette cupole azurèe des mer napolitaines, vient demander des effects et des modèles à nos cotes  et a nos climats ! Par quel étrange contraste l’Italie vient-elle étudier en France, lorsque la France va étudier en Italie, ou plutot vit encore des souvenirs et des lecons que l’Italie lui a laissés ? ».

Nibelle conclude con la diagnosi di un mondo che per effetto  dell’industrializzazione sta cambiando e auspica un ritorno, magari per stanchezza alle bellezze della natura che da sempre hanno ispirato l’arte. In effetti la sua diagnosi non è poi così peregrina.

Ad attirare sempre più gli artisti è il ruolo di Parigi in quanto metropoli moderna, connesse a questo  ruolo, tutte le diavolerie della moderna società industriale, compresi gli apparati tecnici del settore grafico, la fotografia, le novità delle arti applicate in generale e il tempio dove tutto questo si può ammirare, ossia le Esposizioni Universali. Così, si verifica tutto ciò che Nibelle ha constatato: dall’Italia partono precocemente i segnali di artisti e scienziati che desiderano aggiornarsi sui modelli francesi, mentre contemporaneamente, dalla Francia soprattutto i fotografi scendono in Italia per incamerare nel proprio repertorio  quelle immagini di antica tradizione , famose fino a diventare in taluni casi stereotipi, del patrimonio artistico e paesaggistico italiano , segnatamente meridionale. Tra i fotografi di mezza Europa continua a persistere il mito dell’Italia come meta del Grand Tour e fra le tappe italiane più significative Napoli riveste un ruolo principale. Alcuni viaggiatori –fotografi  documentano le aree archeologiche, gli oggetti d’arte e i monumenti della città. Altri si stabiliscono a Napoli impiantandovi il loro atelier e i propri uffici commerciali. Notevole è l’interesse che manifestano nei confronti della fotografia gli artisti napoletani. Gli scambi tra arte e fotografia nel corso dell’Ottocento sono fittissimi. La fotografia dei professionisti risente di schemi visivi diffusi da incisori e pittori, viene presa ad esempio per Napoli, la famosissima immagine del golfo presa da Posillipo con la quinta laterale del pino che passa pressoché inalterata dalle incisioni del primo Ottocento ai pittori della scuola di Posillipo al repertorio fotografico di molte ditte napoletane, fino alle cartoline. Artisti che utilizzano il mezzo   fotografico lasciandosene influenzare sono Celentano, Palizzi, Morelli,Cammarano. Dai loro epistolari apprendiamo che fra di loro c’è un giro vorticoso di immagini fotografiche relative alla loro produzione: sono scambi con altri artisti di foto con dediche  della propria città, come ricordo affettuoso oppure al fine di ottenere un parere, un giudizio o ancora con la speranza di una mediazione mercantile. Si sono accertati scambi in tal senso con Mosè Bianchi , gli Induno e i Macchiaioli. Morelli e Celentano cercano di procurarsi foto “ a qualunque prezzo” di dipinti soprattutto stranieri per studiarli, desiderano la riproduzione della Santa Cecilia portata al sepolcro di Bouguereau, di cui ha parlato loro Vertunni e danno l’incarico a Caneva noto pittore e fotografo romano, di eseguirla[3]. Senza dubbio l’uso più interessante che costoro fanno della fotografia è quello in relazione diretta con la  loro produzione pittorica e scultorea. Non è facile accertare con sicurezza il ricorso all’immagine fotografica all’interno del processo creativo, anche per la ritrosia di molti artisti ad ammetterlo; tuttavia alcune testimonianze inequivocabili ci sono. La più antica riguarda  l’uso da parte di Filippo Palizzi del cliché verre , una tecnica eliotipica a metà fra l’incisione e la fotografia , appresa  in Francia nell’ambiente della scuola di Barbizon durante il suo primo viaggio nel 1855. Insieme al fratello Giuseppe stringe amicizia con Nadar, come risulta da alcune sue lettere conservate nei suoi manoscritti[4].Per Bernardo Celentano la fotografia costituisce una tappa nella costruzione dell’opera, con un ruolo simile a quello svolto dallo schizzo preparatorio,dallo studio di un particolare o ancora dallo studio delle luci. Nel 1870 nelle memorie dell’ormai anziano  scultore  Tito Angelini leggiamo una vera e propria esaltazione del mezzo fotografico. Questa memoria viene letta presso la Reale Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti, in cui rivela senza ritrosie il suo personale usodi questo ausilio ed i vantaggi che ne derivano allo scultore: “Benché l’artista parla sempre meglio dell’arte propria, che delle arti sorelle, io dirò nondimeno, come dalla fotografia traessi vantaggio, perché nella statuaria grandemente mi sono giovato, e mi giovo della fotografia, cercherò di dimostrare, come con fotografie tratte da diversi punti d’una stessa figura, o d’un medesimo ritratto, io abbia potuto raggiungere la somiglianza, per modo che meglio non avrei potuto, se ne avessi tenuto  lungamente a modello il vivente originale. La fotografia dà la sicurezza del contorno, perché vi presenta quello della natura stessa. Inoltre la spontanea movenza, e quella spigliata verità dei capelli, che secondo l’età si veggono più o meno morbidi allo sguardo del ritraente, non si possono ottenere modellando dal vero, dal perché in quelle poche ore, che si concedono alle sedute, onde ritrarre il busto di una persona, l’artista è ragionevolmente più intento a rendere l’insieme, che i particolari delle pieghe, dei capelli, e di quanto infine riguarda gli accessori,che formar debbono un armonico complesso. L’artista finisce così per eseguire  la cosa più difficile in arte, vale a dire i capelli,intagliandoli quasi sempre come di pratica: per modo che nella scultura di una epoca non lontana si veggono resi i capelli d’un vecchio nel modo stesso di quelli d’un giovane, e i capelli bianchi figurati come i neri, senza por mente, che il colore anche nella scultura si ravvisa per mezzo del delicato tocco dello scalpello, e per la diversità della intelligentesecuzione”[5].

Per  De Nittis la fotografia al pari di Degas, è uno stimolo ad ammodernare il taglio della composizione, per Michetti dopo essere stata alleata della pittura –soprattutto nella documentazione di eventi folklorici  da lui osservati- comincia a costituireun’alternativa. Questo si verifica quando viene meno la fiducia nelle possibilità comunicative della pittura all’interno di un discorso realistico. E’ proprio la fotografia, a dispetto della sua fama di strumento mimetico per eccellenza, ad indicare la via verso una frammentazione  ed un’analisi quasi ossessiva della realtà fino ai limiti dell’astrazione[6].

Rosa Spinillo

 

 


[1] G.Cortenova , Il terzo occhio di Edgar Degas in catalogo della mostra ,Degas scultore Napoli museo di Capodimonte

6 dicembre-1 febbraio 1987. catalogo Mazzotta, Milano 1986,p.73

[2] La Lumière rivista n.40, 6 ottobre 1855, Parigi,p.16

[3] B.Celentano, Notizie e lettere intime,a cura di L .Celentano, Roma 1883, pp.79-81

[4] M.Picone Petrusa, Filippo Palizzi e le arti applicate. Tra incisione e fotografia, ceramica e pittura decorativa, in “ ‘800 italiano”, a.II, n.5 marzo 1992, Napoli, p.60.

[5] T. Angelini,Della fotografia in rapporto alle arti belle, Atti della Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Vol.V , Napoli 1870, p.8.

[6] M. Picone Petrusa, Il ruolo della fotografia nella cultura napoletana,in catalogo della Mostra Civiltà dell’Ottocento. Le arti a Napoli dai Borbone ai Savoia, Electa , Napoli 1997, p.116.


[1] A.A. VV. ,Gli impressionisti, Giunti, Firenze 1998, pp.10- 11- 12

[2] Idem, p. 31

[3] A. D’Ambrosio, Storia di Napoli, Edizione Nuova, Napoli,1993 p.189-190

[4] C. Lorenzetti, L’Accademia di Belle Arti di Napoli, Le Monnier, Firenze,1953 p.69-72

[5] AA.VV. , Gli Impressionisti, Giunti, Firenze 1998, p.61

[6] F.Zeri , Degas. Lezione di Danza, Rizzoli, Milano 1998, p.61

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